Mentre la guerra imperversa in Ucraina, l’America di Biden alza il tiro contro il rivale economico cinese, varando misure senza precedenti volte a fiaccare la crescita tecnologica di Pechino. Una raffica di sanzioni approvate ad ottobre puntano a bandire l’export verso la Cina di microprocessori di ultima generazione fabbricati in Occidente. Le misure rappresentano un problema per grossi esportatori come l’olandese ASML, la giapponese Nikon e la coreana Samsung, che derivano una buona parte del loro fatturato dalle vendite cinesi o addirittura operano direttamente in Cina.

La guerra dei chip focalizza ancora una volta l’attenzione del mondo sull’isola ribelle di Taiwan, il cui status internazionale è da sempre in bilico. Grazie al colosso TMSC, Taiwan è il vero dominatore del business dei microprocessori. Pur rifiutando di essere riunita alla madrepatria cinese, l’isola di Formosa è legata a doppio filo con la Cina, verso la quale esporta il 60% dei suoi chip.

Definita dal presidente cinese Xi Jinping, “la linea rossa da non oltrepassare”, Taiwan porta con se le complicate geometrie del Sud-Est Asiatico e gli equilibri di un mondo che, anche in Asia, appare sempre più polarizzato. La difficile contesa del Mare Cinese Meridionale vede le pretese di Pechino toccare gli interessi di molti altri paesi, fra cui Giappone, Vietnam, Filippine e Indonesia.

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